Affascinante fin dal titolo, Treasures from the Wreck of the Unbelievable (Tesori dal naufragio dell’incredibile), la grande mostra veneziana, da poco conclusa, dello scultore inglese Damien Hirst è un viaggio nella fanta-archeologia. Uso la definizione coniata da Fellini per il suo Satyricon in quanto i richiami al cinema sono molti, espliciti o astutamente nascosti.
Il visitatore è accolto all’entrata da un monitor sul quale si può vedere un “documentario” (più propriamente un mockumentary) che mostra le varie fasi di ripescaggio dai fondi marini dell’incredibile tesoro oggetto della mostra. E passando alle grandi sale ci si trova di fronte a una serie di figure scolpite, della più diversa provenienza storica e geografica, quasi interamente incrostate di calcare, conchiglie, madrepore, spugne, coralli. L’effetto è affascinante. Insieme ai reperti egizi e greci troviamo un immane serpente, una colossale dea Kālī con le sei braccia armate di sciabole, una pellerossa che tende l’arco, un corposo Mickey Mouse, una testa di Medusa in doppia versione, di giada e d’oro (entrambe polite). Ma gli occhi in realtà è difficile staccarli dalle incrostazioni policrome – colori porosi, non sempre spenti, porpora, indaco, blu cobalto, nero, verderame, ocra.
Tornano in mente i film della saga Pirati dei Caraibi, il veliero The Flying Dutchman e le creature condannate a bordo per cent’anni, secondo tradizione: creature umane ma ormai anche marine, i corpi incrostati di alghe, madrepore, coralli, i pallidi volti assaliti e mangiati da schiere di piccole o minuscole conchiglie, con il capitano Davy Jones, volto di cefalopode, fluenti tentacoli di polipo che gli fanno da chioma e da barba… Invenzioni visive meravigliose, che precedono di parecchi anni quelle di Hirst. Il che nulla toglie allo scultore inglese: il quale evidentemente, oltre che della propria fantasia e cultura (sono un gioco raffinatissimo sul vero-falso – o falso autentico di pynchoniana memoria – le elaborate didascalie che accompagnano ogni scultura), si nutre di cinema. I film prodotti dalla Disney (che a loro volta derivano da una delle grandi attrazioni della Disneyland californiana anni Ottanta) Hirst li ha visti di sicuro, e se gli hanno suggerito la sua spettacolare variazione, tanto meglio. Chi sembra non accorgersi di queste interessanti connessioni e scambi sono i soliti Preziosi, i critici d’arte tradizionali, gli infiniti addetti ai lavori, gli innumeri intenditori: perché probabilmente non vanno al cinema, oppure scartano a priori gli spettacoli pop. Questo problema delle pareti stagne fra un campo e l’altro l’ho ritrovato stigmatizzato da Eric Rohmer in Da Mozart a Beethoven, un saggio ora pubblicato in italiano (da Mimesis): “… i teorici delle arti plastiche e della musica, chiusi ognuno nella propria sfera senza apertura alcuna”.
L’arte del cinema in particolare, dopo aver fatto parte del bagaglio culturale indispensabile, e dopo decenni di studi critici approfonditi e meravigliose riscoperte, sembra tornare squallidamente al suo vecchio ruolo di Cenerentola. I principi azzurri, gli artisti che erano anche appassionati studiosi, i Truffaut, Godard, Reisz, Scorsese, Bogdanovich, non sono più fra noi o sono incolpevolmente stanchi. Gli inviti ai “balli”, ossia festival e féeries come Bologna e Pordenone, sono ricercatissimi, e i partecipanti si accalcano, ma si tratta di piccolissime élites, che nulla possono contro il dilagare dell’ignoranza. Scuola e università fanno poco o nulla, e anche questo poco o nulla lo fanno male. Valga come esempio l’Agis Scuola, che consiglia i film più codini: in occasione della Giornata della Memoria di due anni fa non consigliarono Il figlio di Saul (chiedo perdono se per una volta parlo di un film distribuito dalla nostra Teodora), un capolavoro sui sonderkommando di Auschwitz che almeno nei licei dovrebbe essere obbligatorio, e che già coronato a Cannes dal Gran premio della Giuria, ebbe poi l’Oscar come migliore film straniero dell’anno. I professori, tranne eccezioni, sembrano mal informati o hanno un’idea di cinema spaventosamente banale, e in conclusione portano gli studenti a vedere i film “impegnati” più corrivi – e possibilmente pomposi, così in luogo di stimoli reali ammanniscono una bella dose di noia e allontanano definitivamente le persone giovani dal cinema. Sta di fatto che non esiste più una minima formazione, nemmeno del gusto, e la più consistente funzione critica sembrano averla gli uffici stampa delle majors americane. Si spiegano così, forse, certe sopravvalutazioni e rapimenti collettivi (via web) per film banali, solo decorativi o decisamente orrendi.
Alla confusione, oltre che all’assenza di pubblico nelle sale, contribuiscono naturalmente le serie televisive e la loro moda ormai dissennata. Serie uguale bello sembra un dogma. Qualche giorno fa è apparso su Repubblica un intervento al proposito di Cristina Comencini. Dopo aver analizzato vari aspetti del linguaggio seriale, la regista sostiene molto acutamente che i personaggi delle serie sono degli archetipi, “modelli primari inconsci, non completamente rivestiti di carne e ossa, ma espressione diretta di caratteri primordiali…”. Da questo deriverebbe (riassumendo molto) che non ci identifichiamo veramente in nessuno di loro e quindi non ci commuoviamo mai. Il che mi pare inoppugnabile, anche se bisogna tener conto, quanto all’identificazione, del fatto che molte delle serie più affascinanti hanno protagonisti fortemente negativi, quando non veri e propri criminali e tiranni (House of Cards, Breaking Bad, Westworld, ecc.).
La mancanza di commozione deriva anche, in larga parte, dalla lunghezza (ho già fatto cenno al problema della lunghezza, o prolissità, in queste note qualche mese fa). Quando l’andamento narrativo è imposto dall’alto e si devono rigirare i personaggi da tutte le parti e in tutte le situazioni si perde qualsiasi mistero, e non ci può più essere nella rappresentazione la scintilla, l’illuminazione improvvisa che porta al pathos. Il cinema è sempre stato un linguaggio ricco, denso, un linguaggio di sintesi. O meglio, la sintesi è l’essenza del cinema, la ripetitività ne è la negazione. Nei grandi film un’inquadratura e tre parole possono toccare nel profondo, essere indimenticabili, valere pagine e pagine di un libro. Ma se la rappresentazione filmica deve seguire per forza le regole del romanzo a puntate ottocentesco avremo delle possibilità di approfondimento delle situazioni rispetto al cinema tradizionale, ma mai una rivelazione d’ordine estetico. La forza segreta dell’arte non sarà qui.