Armi di ultima generazione che si trasformano nei gioielli più preziosi, scie di missili che diventano collier, orecchini di brillanti che si mutano in droni in una rincorsa cupa e sfrenata: i bellissimi titoli di testa di The Night Manager, nello stile dell’ultimo Bond, racchiudono bene il senso di questo racconto, che è un affondo nel Male contemporaneo. Il Male, qui, si chiama Richard Roper ed è un potente trafficante d’armi protetto dalla complicità di agenti sia dell’Intelligence inglese che della CIA – funzionari che si proclamano destinati a mantenere lo status quo del mondo (con i politici comunque fra le quinte). È un quadro nerissimo quello che ci viene dipinto, sulla scorta del romanzo di John Le Carré, dalla regista Susanne Bier e dal suo sceneggiatore David Farr. L’azione viene spostata dal Sudamerica al Medio Oriente (il libro risale al 1993) e focalizzata per intero sul contrabbando di armi, il che rende spaventosamente attuale e trascinante una vicenda già di suo costruita con maestria. Questo coinvolgimento, non solo a livello epidermico ma nel profondo, lo dobbiamo, come sempre, al modo della narrazione, alla qualità della messa in scena. Se da una parte c’è un uso formidabile dell’azione e della suspense, dall’altra sono i personaggi, la convinzione e l’amore con cui vengono ritratti, a commuoverci davvero, al di là di quello che ci aspettiamo dal genere.

Il personaggio del titolo è Jonathan Pine (il bravo Tom Hiddleston, probabile futuro James Bond), un reduce della guerra in Iraq che ha visto cose che non avrebbe mai voluto vedere e, diventato il direttore notturno di un grande albergo del Cairo, si trova di nuovo coinvolto in una tragedia che si rivela presto non solo esistenziale (l’omicidio di una bella avventuriera) ma “globale”, la guerra in Siria con relativo traffico d’armi. Jonathan viene reclutato come agente segretissimo di una piccola branchia dell’MI6, e la reclutatrice, Angela Burr, che ha visto a sua volta l’orrore della guerra, una carneficina di centocinquanta bambini, è un esempio eroico di ostinazione, lealtà, coraggio (l’attrice prodigiosa, di quelle che speri di rivedere al più presto, è Olivia Colman).

Robert Mitchum in La morte corre sul fiume (1955)

Robert Mitchum in La morte corre sul fiume (1955)

Il grande trafficante presso cui Pine deve infiltrarsi, Richard (“Dickie”) Roper, appartiene alla razza dei padroni del mondo attuale, uno di quelli che fanno prosperare alla grande l’industria del lusso (vedi i citati titoli di testa). È gelido, sospettosissimo, di crudeltà, egoismo e cinismo mai visti: le persone nuove le passa allo scanner, e è subito chiaro che non fa prigionieri. Hugh Laurie, ex Doctor House, è una vera rivelazione nella parte: in molti momenti, in apparenza senza recitare, solo con quei grandi occhi azzurri che si riempiono d’ombre, mette realmente paura – come certi assi del passato, Robert Mitchum “cattivo”, Jack Palance, più di recente il De Niro di Cape Fear. Molto inquietante, perfetto ritratto del piccolo uomo intelligente e velenoso, è anche il braccio destro di Roper, Corkoran, interpretato da un altro attore di prim’ordine, Tom Hollander. Del gruppo ristretto fa parte infine un lord degenerato, Langbourne, finanziere esperto, la cui moglie è una delle eroine tragiche del film.

Sono tre donne legate ai loschi miliardari, le loro vittime private. La prima è amante di uno dei “contatti” di Roper, la bella egiziana che, passando al night manager Jonathan Pine dei documenti ultra-compromettenti sul traffico d’armi, dà l’avvio alla vicenda e paga con la vita. L’altra è l’appena citata Lady Langbourne, quarantenne ancora bella, trattata come una bambola di pezza e tradita in pubblico dal marito, nevrotizzata, soffocata dalla compagnia che è costretta a frequentare. In lei si rispecchia e vede il proprio futuro con doloroso terrore la protagonista femminile del film, Jed, l’amante di Roper, giovane, bella, fragile ma coraggiosa, prigioniera: una creatura che una volta entrata in quel terribile cerchio magico sembra non poterne più uscire, e il cui destino ci tiene in sospeso fino alla fine. A queste donne, e alla agente del MI6 che va in giro per il mondo a caccia di guai con un pancione di otto mesi, Susanne Bier dà una credibilità drammatica, un peso, uno spessore del tutto inediti. Se si pensa che le prime tre non sono altro che un aggiornamento del vecchio personaggio “pupa del gangster” si capisce per quale ragione John Le Carré e il team produttivo della BBC abbiano scelto una regista di film esistenziali come la Bier (che d’altronde, prima del deserto siriano, dell’Egitto e della Turchia di questo film, aveva “aperto” con grande precisione di sguardo su luoghi altrettanto esotici e drammatici, basta pensare allo squarcio di India povera in Dopo il matrimonio, all’Africa in guerra di In un mondo migliore).

Elizabeth Debicki in The Night Manager

Elizabeth Debicki in The Night Manager

I momenti da citare sarebbero molti, ma ricorderò solo come particolarmente impressionante lo show dal vivo, nel deserto siriano, della potenza, efficienza e precisione delle armi che Roper deve vendere (per conto, è giusto sottolineare, di sette compagnie inglesi e americane); e altri di particolare soddisfazione e gratificazione dello spettatore (la Bier è non solo una narratrice nata, è anche generosa) che non dirò per rispetto di chi non è ancora arrivato in fondo. Alla fine non si può non dire quanto tutto l’insieme, tutta la produzione in ogni dettaglio sia eccellente (il pensiero corre mestamente alle nostre fiction!) ; e quanto un film che ci fa guardare in faccia il Male e potrebbe essere predicatorio e uggioso riesca invece a essere vitale, emozionante, dinamico. Un ultimo grande pregio: The Night Manager è una storia complessa, articolata e dettagliata, ma non allungata per esigenze di serialità. In un paio di sere, tre puntate alla volta – che corrispondono più o meno a un film di due ore e mezza – e il gioco è fatto. Ma di vizi e virtù, trionfi e cadute delle serie drammatiche che vanno avanti per molte stagioni, un’altra volta.

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