Da almeno un paio di decenni molto cinema ha ignorato o voluto sovvertire le regole della sintassi, ovvero della logica e oggi lo fa, si direbbe, addirittura senza consapevolezza. Un esempio clamoroso è il servirsi di primi e primissimi piani di cose (bicchieri, chiavi, serrature, ecc.) senza che queste abbiano alcuna importanza nell’azione, sono giusto un dettaglio. Ma il dettaglio di un bicchiere, Hitch e molti altri insegnano, dovrebbe dirci che in quel liquido c’è qualcosa che non va, oppure che il tipo sta bevendo troppo e una chiave portata in primo piano dovrebbe aprire una porta di un qualche peso nella storia, introdurci a una presenza, a una situazione nuova, a una sorpresa, a un pericolo. Se invece chi tiene la chiave in mano entra in casa sua e lì è è tutto normale e tranquillo, quel primo piano equivale a un orpello dei più gaglioffi. Ancora peggio è l’uso indiscriminato dei primi e primissimi piani delle facce, che in alcuni casi possono diventare smisurate faccione per quattro quinti di film (alla Kechiche, per intenderci).
Questo, secondo me, rivela soltanto una spasmodica ricerca dell’espressione insieme a una grossolana ossessività, mancanza di fantasia e, per l’appunto, di distacco, che è pur sempre necessario sia al regista – e più che mai se non si è dei maestri assoluti come Ingmar Bergman (penso all’uso straordinario dei primi piani in Scene da un matrimonio (foto in testa all’articolo) – sia allo spettatore, che ogni tanto deve pur tirare il fiato e, come succede nella vita, voler distogliere lo sguardo da una faccia altrui. Altrimenti i personaggi diventano come quegli individui insopportabili che più si arretra e ci si scansa da loro più ti vengono addosso coi loro ghigni e la loro voce querula. Bene, nel cinema classico, su cui gli attuali registi dovrebbero pur essersi formati, il primo piano dei volti veniva usato sempre ad hoc, con la parsimonia necessaria a conservarne la forza, il senso di rivelazione e la magia. Non sono certo il solo a ricordarlo, e per questo è strano che di fronte a tante brutture di linguaggio nessuno, o quasi, alzi un sopracciglio. Anche perché nel linguaggio di ultima generazione si è sistemata a suo agio un’altra sciagura.
Ovvero le nuche in marcia, nuche deambulanti, nuche che camminano molto lungamente e più o meno lentamente percorrendo eterni corridoi o stradine, in silenzio, seguite con quell’attrezzo fin troppo comodo che è la steady-cam o anche con una semplice macchina a mano. Le nuche. Tasso di inespressività, mille. Tasso di noia, mille. Stress, o strazio, dello spettatore poco paziente, infinito. Eppure è una delle riprese (piano-sequenza, secondo loro) preferite da una parte del cinema europeo (incluso, eccome, l’italiano) e non solo. Variazione possibile alla pura e semplice nuca, e prezioso arricchimento, l’orecchio, magari appena appena di tre quarti. Negli ultimi anni ci siamo sorbiti ore e ore di sorde nuche d’ogni nazione. Perché, nel loro presenzialismo, se non camminano, le nuche vanno in automobile, e spesso stanno ferme alla finestra – a pensare, magari per un minuto o due. In qualche caso spuntano dalla spalliera di un divano, o di una panchina. Ma corridoio e finestra sono per i registi le postazioni favorite, e per lo spettatore avvertito le più minacciose.
Speculare e anche molto usata è la ripresa frontale della camminata, che potrebbe essere più interessante delle nuche se succedesse intanto qualcosa, se due personaggi si scambiassero buone battute, se l’attore o l’attrice fossero di quelli magnetici: perché è chiaro che riprendere volto e camminata di Jennifer Lawrence o di Jack Nicholson è altra cosa dal riprendere, secondo le stesse regole, degli esseri poco attraenti e sconosciuti. Molto spesso, in ogni modo, l’unica cosa che “succede” è questo ozioso seguire i personaggi, questo falso movimento dato dalla steady-cam. Di fronte a tanta insignificanza, certo che un film come Birdman può sembrare un capolavoro, è un intero film, un’intera messa in scena pensata per la steady-cam e virtuosisticamente realizzata con la medesima. E mentre ci si muove (qui sì, il piano sequenza è degno del suo prestigio) all’interno di un unico ambiente complesso (il teatro) l’azione procede. E qualche nuca in cammino ci sarà anche, ma si nota di sfuggita.
Come al solito la colpa – di questo, potremmo dire, analfabetismo cinematografico di ritorno – è dei geni. Se nel 1959 John Cassavetes non avesse fatto quel certo uso della macchina a mano in Ombre, se vent’anni più tardi Stanley Kubrick non avesse inventato la steady-cam per The Shining… quanto spazio in meno ci sarebbe per i falsi movimenti! Forse avremmo più spesso i classici, efficacissimi e inavvertibili piani fissi con il movimento all’interno dell’inquadratura: una cosa naturale e senza pretese, e uno dei veri segreti del linguaggio – cinema – insieme alla distanza dell’obbiettivo dalle cose, la durata delle inquadrature, l’alternanza delle stesse.