Kirk Douglas ha compiuto cento anni di vita il 9 dicembre, ma per arrivare all’immortalità cinematografica di anni gliene sono bastati cinque, dal 1946 al 1951: un’epoca lontana in cui il soggetto dei film era l’essere umano e l’attore era al centro di tutto. Nato col nome di Issur Danielovitch ad Amsterdam, New York, da immigrati ebrei russi poverissimi che parlavano yiddish, Kirk riuscì a diplomarsi facendo mille piccoli mestieri e riuscendo infine, grazie alla fiducia della madre e delle sei sorelle, a frequentare un’accademia d’arte drammatica. Arrivò presto alle scene di Broadway, dove fu notato dal produttore della Paramount Hal B. Wallis. Debuttò nel ’46 sotto la guida di Lewis Milestone in Lo strano caso di Martha Ivers (accanto a un’altra immortale, Barbara Stanwyck) imponendosi in un personaggio di uomo debole semi-alcolizzato. Ma già l’anno seguente è un duro, un gangster di successo che riemerge dal passato di Robert Mitchum in uno dei capolavori del noir, Le catene della colpa (Out of the past, di Jacques Tourneur): la sua carica, la sua forza trattenuta gli fanno dominare ogni scena in cui appare. Il ruolo di gelido gangster lo ripete nel ’48 in un altro noir, Le vie della città (I walk alone, di Byron Haskin), che segna il primo incontro con Burt Lancaster, già divo e attore di talento almeno pari al suo, del quale diverrà amico per la vita e partner in diversi celebri film.
L’anno seguente arriva la grande opportunità, la parte di protagonista, un pugile senza scrupoli in Il grande campione (Champion, di Mark Robson), che lo rivela al grande pubblico e ne fa una star. In questa occasione, oltre a un talento elettrizzante, rivelò il suo grande intuito: nell’accettare l’offerta del produttore Stanley Kramer, un indipendente, Douglas dovette rifiutare un film della MGM, Il grande peccatore, per il quale avrebbe guadagnato il triplo. Da qui alla grandezza il passo fu breve: dopo aver girato alla Warner col maestro Michael Curtiz e l’amica del periodo newyorkese Lauren Bacall Chimere (Young Man with a Horn, 1950, ispirato alla vita del grande trombettista jazz Bix Beiderbecke), riceve la chiamata di Billy Wilder per quello che sarà un nuovo capolavoro dopo Giorni perduti e Viale del tramonto, ovvero il proverbiale L’asso nella manica (The Big Carnival, 1951). Di un giornalista di provincia assatanato di carriera che per uno scoop è pronto a sacrificare la vita della vittima di un incidente Douglas fa un ritratto sconvolgente: un serio professionista in apparenza, in realtà un uomo di ghiaccio e privo di scrupoli, un criminale, un violento drogato del proprio ego.
Da questo momento è tutto un seguito di grandi registi che lo vogliono al centro dei loro film: William Wyler (Pietà per i giusti), Vincent Minnelli (Il bruto e la bella), King Vidor (L’uomo senza paura), ancora Minnelli, che in Brama di vivere (1956) gli fa impersonare Vincent van Gogh: impresa rischiosissima che, a film rivisto, è un trionfo: Douglas, tra l’altro somigliantissimo, fa rivivere l’ossessività, il candore, la violenza, l’amarezza, i lampi, la tragedia del genio in prima persona. Intanto c’è stata una bellissima produzione Walt Disney (20.000 leghe sotto i mari, di Richard Fleisher, da Verne) in cui, accanto a un grandioso James Mason-Capitano Nemo, Douglas è un allegro marinaio, specialista dell’arpione – e fra una prodezza e l’altra intrattiene i compagni d’avventura ballando e cantando come se non avesse mai fatto altro. Nella carriera dell’attore è un film importante: per la prima volta ha un personaggio positivo e simpatico e se ne dimostra più che all’altezza. Nello stesso periodo il cinema italiano, nella fattispecie Ponti-De Laurentiis-Camerini (altri tempi!), gli offre l’occasione del grande personaggio omerico, Ulisse, e tutti gli spettatori italiani lo ricordano: è trascinante, è l’Ulisse che abbiamo sempre immaginato, è perfetto. Altro personaggio rimasto a lungo nella memoria, il Doc Hollyday di Sfida all’OK Corral (John Sturges, 1957) insieme a Burt Lancaster, che era il mitico Wyatt Earp. E finalmente Douglas arriva all’incontro con un giovane artista di origine russa come lui, Stanley Kubrick – incontro che diverrà determinante per entrambi.
Come il geniale amico Burt Lancaster (che aveva fondato la Hecht-Lancaster), per affrancarsi dagli studios Kirk Douglas aveva messo su la sua casa di produzione, chiamata Bryna dal nome della madre. E quando Kubrick, il cui prodigioso talento si era appena rivelato con Rapina a mano armata (The killing, 1956), gli sottopose il suo nuovo progetto, Douglas lo fece suo accettando di interpretarlo e finanziarlo. Era di nuovo un’impresa ad altissimo rischio, una storia senza mezzi termini antimilitarista che si svolge nella I° guerra mondiale: una guerra che Hollywood aveva narrato, sempre in termini tragici, negli anni Venti e Trenta, ma aveva poi per forza di cose dimenticato con la II° guerra mondiale. Il progetto si tradusse in Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957), ovvero nell’assoluto capolavoro che conosciamo. (Conosciamo?… Chissà chi conosce cosa, oggi: ma Orizzonti di gloria, in un tempo in cui il governo americano è formato da quattro petrolieri più tre generali, dovrebbe essere un testo scolastico obbligatorio.)
La collaborazione con Kubrick si rinnova per Spartacus (1960), che rimane a tutt’oggi l’unico film su Roma che non sembri una parodia involontaria, anzi, che è un grande film sulla libertà. Kirk Douglas, oltre al suo impegno come protagonista e produttore, ebbe il merito di volere il nome dello sceneggiatore Dalton Trumbo nei titoli di testa, rompendo finalmente la maledizione maccartista (fascista) che, insieme a molti altri intellettuali e artisti di sinistra, aveva esiliato Trumbo dal suo lavoro costringendolo alla disoccupazione e agli pseudonimi (la situazione dei tristemente famosi black-listed fu rievocata molti anni dopo da Martin Ritt e Woody Allen ne Il prestanome). Firmato come sceneggiatore da Dalton Trumbo è anche Solo sotto le stelle (Lonely are the brave, di David Miller, 1962), struggente bellissimo western contemporaneo in cui Douglas è l’individuo che si ostina ad andare a cavallo in un mondo di automobili e di confini non valicabili. Un nuovo inno alla libertà dopo Spartacus e dopo L’uomo senza paura, il western in cui Douglas è l’uomo che si batte contro le recinzioni di filo spinato intorno ai pascoli, ossia contro la formazione delle grandi proprietà terriere: viste come accumulo di capitale e insieme come fine dell’individuo, dell’uomo americano abituato ad andare ovunque liberamente.
La democrazia come unica forma possibile di libertà è il tema di Sette giorni a maggio (John Frankenheimer, 1964). Burt Lancaster è un potente generale golpista, Douglas il colonnello ai suoi ordini che scopre per caso il progetto di golpe ed è costretto a denunciarlo. Bisogna vedere come diventa inflessibile e glaciale di fronte alla glaciale spaventosa determinazione di Lancaster. Come se non bastassero questi due assi, la donna amata dal colonnello è Ava Gardner (che è al di là di qualsiasi aggettivo), il presidente troppo debole per i gusti dei militari è un meraviglioso Frederic March. Un film, anch’esso drammaticamente attuale, davvero da recuperare. Negli anni che seguono Kirk Douglas è sempre popolarissimo, inarrestabile, pronto all’avventura. Basta citare l’horror parapsicologico The Fury, diretto nel 1978 da un giovane regista che si era appena affermato con piccole produzioni indipendenti, Brian De Palma, e accanto a un attore, John Cassavetes, che era il simbolo stesso dell’indipendenza.
Un’altra scommessa vinta in una carriera esemplare. Eppure, malgrado le tante prove folgoranti, Kirk Douglas ebbe un Oscar solo alla carriera (nel 1996), che è come dire un contentino, un ripensamento da coda di paglia. È in buona compagnia. Non hanno mai avuto un Oscar diversi geni del cinema: Charlie Chaplin, Greta Garbo, Marlene Dietrich, Barbara Stanwyck; per non dire di John Cassavetes, comunque troppo fuori dal sistema… E l’hanno avuto solo onorario o alla carriera: Ernst Lubitsch nel 1946, quando ormai era stato colpito da un grave infarto (sarebbe morto l’anno seguente), Cary Grant nel 1970, quando si era ritirato da diverso tempo… Ma se pensate che un Oscar l’ha vinto perfino Nicholas Cage viene proprio da dire: abbasso i premi! e viva Kirk Douglas!