Sia la sceneggiatrice di The Wife che l’autrice del romanzo omonimo devono aver avuto come motivo d’ispirazione il celebre detto “dietro ogni grande uomo c’è una grande donna” – al quale ognuno può dare più o meno credito, ma che tendenzialmente ha dei riscontri obbiettivi. Diciamo che normalmente vicino a una persona “riuscita” non c’è un cretino o una cretina. Ma da qui a dire che nei quarant’anni di carriera di un celebre scrittore vincitore del premio Nobel, è la moglie che ha scritto tutto, c’è un bel salto. Mortale, per quanto riguarda la credibilità.
Questa verità, scottante secondo gli autori, non viene mai accennata nei flash-back che descrivono la vita passata della coppia ormai anziana. Esplode invece, tutta insieme, durante la serata della premiazione a Stoccolma, con tanto di monarchi svedesi piantati in asso durante la cena ufficiale, senza manco scusarsi, dai due coniugi finalmente ai ferri corti e in furiosa fibrillazione. Una cosa in effetti inaudita. Non è solo questione di etichetta di corte, ma di buona o cattiva drammaturgia. Di autentico realismo o di falso realismo, come tanto cinema di oggi, sempre ammantato dalla “verità” della fotografia. Tanto meno la pur bravissima Glen Close risulta credibile, con quella grinta da sbranatrice, nella parte della mogliettina masochista e dotatissima (la vera Nobel!) che per tutta la vita, zitta zitta, nottetempo per non destare sospetti nei figli, ha scritto capolavori e assistito contenta e modesta (donna di casa, sono!) alla crescita della fama del marito. Il quale naturalmente, oltre che debole e cinico, è narcisissimo. Mi è sembrato veramente troppo, anche per un assiduo praticante della suspension of disbelief, o sospensione dell’incredulità, come lo è ogni spettatore che si rispetti. Il quale però sa che anche questa sospensione ha le sue regole del gioco, e che nulla è peggio di un dramma che cade nel ridicolo. Quanto al regista, è di quelli che per timore di fare la cartolina e di non essere abbastanza “focused” non ci mostra mai una meraviglia come Stoccolma sotto la neve, né dà conto neanche per dettagli del palazzo reale, degli storici ambienti nei quali si svolge la cerimonia del Nobel; però poi manda nella camera della coppia americana esausta e addormentata il coretto natalizio di bambine con la corona di candele accese che cantano Santa Lucia. Il paventato folclore rientra così dalla porta principale, e la cosa non viene neanche sfruttata per una gag o un salto d’umore.
Questo The Wife, lodatissimo ovunque, meriterebbe una palla nera, se non fossimo contrari per principio alla fondamentale irrispettosità di un procedimento che riguarda solo ed esclusivamente il cinema. Se aprite infatti le pagine locali del Corriere della Sera, sopra i tamburini dei cinema e dei teatri trovate le segnalazioni di alcuni film e spettacoli: ebbene, i film si beccano le palline, gli spettacoli no. Sull’Espresso la cosa salta ancora di più agli occhi: nelle tante recensioni grandi e piccole di romanzi, saggi, concerti, incisioni, spettacoli teatrali, ecc., non ci si azzarda ad affiancare il giudizio sintetico espresso dalle palline. Ma la critica del film, quella sì, unica, porta il marchio. Come dire che il cinema riguarda più che altri il lettore frettoloso, e lo si può trattare da fenomeno culturalmente minore, ovvero, più o meno, a pesci in faccia. Ora ditemi voi se questa non è una forma di discriminazione e di maleducazione nel senso più pieno della parola, cioè, sostanzialmente, ignoranza. Che dei giornali “importanti” non solo la avallino ma la promuovano, senza forse nemmeno accorgersi della flagrante contraddizione e incoerenza del loro atteggiamento, è un segno di barbarie culturale iniziata molti anni fa – senza che alcuno battesse ciglio e magari avviasse una discussione seria su tale uso. Ma a questo punto forse sarebbe il caso di ribadire, benché possa suonare perfino ridicolo, che il cinema non è un’arte minore. E prodotti come The Wife non saranno mai più brutti di una mostra d’arte raffazzonata, di una Madama Butterfly in jeans e maglietta o di un romanzo che con la materia sufficiente a un racconto la tira in lungo per quattrocento o cinquecento pagine.