Tanti anni fa un amico francese mi disse che secondo lui i fratelli Coen erano dei “faiseur”, parola difficilmente traducibile (“mestierante” sarebbe impreciso e riduttivo) ma tanto espressiva da poter essere classificata come prezioso concetto estetico. In breve il “faiseur” è il finto artista, quello che fa per abitudine e per guadagno ma senza vera necessità – e senza l’umiltà dell’artigiano. Quella definizione crudele mi è tornata in mente dopo la visione di Ave, Cesare!, sontuoso quanto noioso pastrocchio che ha mandato in visibilio alcuni recensori.
Ammetto che io sono andato a vederlo dopo aver vinto una prevenzione di base: l’amore dei Coen per la commedia mi è sempre sembrato un amore terribilmente non corrisposto. Ogni volta che hanno affrontato questo genere, che fra tutti è il più nobile in quanto più difficile da praticare, il risultato è stato una classica cilecca, tipo un ottimo champagne stappato troppo tardi: erano miseramente sfiatati Mr. Hula-Hoop, Fratello dove sei, Prima ti sposo poi ti rovino (che aveva l’aggravante di due personaggi-protagonisti entrambi odiosi, errore, in commedia, che non parrebbe ammissibile neanche da parte di principianti), Ladykillers, Burn after reading nonché Gambit, disastroso remake di un disastro d’antan, solo sceneggiato.
Alla fine comunque ha vinto la mia curiosità, anche perché ogni film sul cinema mi sembra attraente per definizione. Mal me ne incolse. Su una tramina della massima pretestuosità che pretenderebbe di gettare uno sguardo addirittura sul maccartismo (perché comunque un segno di serietà autoriale ci vuole) con la messa in scena dei famosi “dieci” black-listed di Hollywood – siamo nel 1951 – si assiste a una serie di numeri non solo scollegati (non ci sarebbe nulla di male, nella tradizione di certi musical degli anni Trenta) ma, ahimé, di scarsissima soddisfazione. Piuttosto moscia e insipida è la rivisitazione di un numero acquatico di Esther Williams (ne La ninfa degli antipodi, 1952) che il mago Busby Berkely riprese da una propria celebre coreografia di vent’anni prima (in Footlight Parade); e appena passabile il balletto dei marinai, dove il pur adorabile Channing Tatum risulta non molto più leggero dell’incomprensibilmente osannato francese Jean Dujardin (il tip-tap del quale, in The Artist, per chiunque abbia visto una volta Fred Astaire o Gene Kelly, risultava di un’eleganza e scioltezza da vero orso ammaestrato).
Al povero Tatum tocca anche la sequenza del film che vorrebbe essere più birichina e clin d’oeil. Dunque: i summenzionati sceneggiatori “comunisti” della lista nera hanno rapito il divo George Clooney per ripagarsi dell’ostracismo col denaro del riscatto, ma poi decidono di devolvere la grossa somma ottenuta (è tutto un gioco, si capisce!) nientemeno che direttamente all’URRS, e a tal fine si spingono su una barchetta in alto mare per un appuntamento con un sottomarino sovietico. Fra loro l’attore-ballerino, il povero Tatum, con la valigetta del denaro e un cane in grembo. È lui che spicca il salto verso la scaletta del sottomarino (dobbiamo intuire che ha deciso di saltare non solo sulla scaletta ma oltre la cortina di ferro!), ma purtroppo, come avevamo già visto dal suo tip-tap, non è abbastanza agile, e tra il farsi sfuggire la valigetta o il cagnolino, sceglie la salvezza del secondo. Il denaro faticosamente guadagnato affonda tra i flutti, irrimediabilmente perduto come in certi leggendari finali dei film di John Huston (Il tesoro della Sierra Madre, Giungla d’asfalto…). La cosa, qui, dovrebbe far ridere o almeno sorridere, invece quel che resta è il sapore di una notazione proprio volgarotta: marinaio ballerino troppo attaccato al cagnolino! E a parte questo, come è possibile essere comici mostrando un divo americano che sceglie la Russia di Stalin?
Ma le licenze dei due astuti fratelli non finiscono qui. La licenza grave è aver ficcato Herbert Marcuse nel gruppo dei filo-sovietici di Hollywood. Ora, a parte che Marcuse era in servizio a Washington dal ’42 al ’51 in quanto membro dell’OSS, e visse poi dal ’51 al ’54 a New York per dedicarsi allo studio del marxismo sovietico presso la Columbia University, di certo non si sognò mai di coltivare sentimenti filosovietici, come i suoi saggi più celebri dimostrano ampiamente – e come conferma la sua fuga da un regime totalitario, quello nazista, ancor prima della presa di potere da parte di Hitler. Dunque di nuovo ci si chiede perché: perché rispolverare, fra uno sketch e l’altro, l’infamia del maccartismo, perché spendere a sproposito il nome del filosofo tedesco, perché appesantire quella che doveva essere una bolla di sapone spendendo una somma da capogiro; infine perché scegliere un attore bello come George Clooney per poi farlo prendere a pesci in faccia dal direttore della fotografia, che lo imbruttisce e lo invecchia come per un fatto personale. Misteri del cinema.
Channing Tatum in Ave, Cesare! dei Coen
Per rifarsi la bocca, consiglio agli appassionati di musical di procurarsi il dvd dell’edizione integrale di At Long Last Love (Finalmente arriva l’amore!), il film che l’amato Peter Bogdanovich costruì nel 1975 su una serie di canzoni del genio Cole Porter. Il film fu massacrato di tagli dallo studio e ovviamente fu un fiasco. Anni dopo il montatore del film rimise insieme gran parte dei pezzi mancanti dando una versione quasi collimante con quella di Bogdanovich. Il quale la approvò e diede un tocco finale col benestare dello studio portando il film a 123 minuti. Il film così restaurato è ora presente anche su Netflix, ed è imperdibile per chi ama la vera leggerezza, la vera eleganza; e le scommesse rompicollo, perché oltretutto Cybil Shepherd, Burt Reynolds, Madeline Kahn e il nostro Duilio Del Prete (tutti di gran classe) cantano e ballano in presa diretta e in piano-sequenza, come usava nei tempi d’oro.
Così è Hollywood, o così è la vita: a qualcuno gli fanno a pezzi un gioiello, a qualcun altro gli lasciano intatta una porcheria. Forse perché essendo una porcheria di pretesa risulta più rispettabile.