Per il genio di Alfonso Cuarón, già generosamente mostrato ma mai come in questo Roma, bisogna ritirare fuori termini e espressioni pressoché dimenticate come mondo morale, intensità, purezza di sguardo (inevitabile pensare ai grandi maestri, Ford, Rossellini), lucidità, capacità di penetrazione, ironia, impalpabilità… Espressioni cadute in disuso in quanto il cinema non ci dà più, o troppo raramente, l’occasione di servircene a proposito. Ma un profumo così naturale e avvincente non emanava dallo schermo da anni. Né si vedeva una così appassionante lezione di realismo.
Roma è insieme film corale e vicenda di due donne. A Città del Messico Cleo è una giovane domestica in una casa borghese, tata affettuosa e amata di quattro bambini. Sofia, la mamma, ancora bella, è sposata a un medico freddo e scostante che poco dopo l’inizio del racconto se ne va di casa lasciandola con una scusa delle più consuete, un viaggio di lavoro. Nello stesso periodo Cleo esce con un giovane tanghero di discreta presenza che pratica arti marziali. Sono insieme al cinema (a vedere un film con De Funès, Tre uomini in fuga: è il 1970) quando lei gli dichiara di essere incinta. Prima che finisca il film lui dice di dover andare in bagno e svanisce. C’è un bellissimo momento, uno dei molti, quando Sofia viene a conoscenza della cosa. Cleo, sguardo serio e assorto, è in piedi, appoggiata allo stipite di una porta a vetri fra cortile e ingresso della casa. Amorevolmente Sofia le prende il volto fra le mani e le dice: Noi donne siamo sempre sole. Poi entra veloce, attraversa il grande spazio a pianterreno e sale la scala che porta al piano superiore.
Questa casa abbiamo imparato a conoscerla subito in tutte le sue articolazioni, tanto è raccontata con precisione e amore, personaggio al pari degli altri, mentre il film, servendosi di una complessa ma inavvertibile messa in scena, segue lo svolgersi delle giornate. Ed ecco un altro dei meravigliosi segreti del film, il ritmo, i tempi calibrati con una naturalezza perfetta, in quella fluidità di racconto che fu uno degli scopi costanti di Jean Renoir. Nell’apparente quasi banale quotidianità (ma per Cuarón, come per ogni grande artista, l’ovvio non esiste, e ogni cosa può suscitare stupore) non c’è movimento o parola che non siano significativi. Non si potrebbe togliere un fotogramma, o un frame: Cuarón ha girato in 70 mm, e questo dà un risultato stupefacente anche in 4K: una larga parte del film è per inquadrature in totale, e la profondità, il nitore, la limpidezza, l’incisività del bianco e nero fanno in modo che nessun dettaglio vada perduto, e per esempio in un quadro affollato di traffico urbano e gente che va e viene noi possiamo distinguere da lontano, piccola, fra i diversi piani, la nera figuretta di Cleo che cammina quasi correndo. Uno splendore.
In una lunga sequenza Cleo, pancia ormai bella rotonda, va a scegliere una culla per il nascituro in un grande magazzino. O meglio è la nonna, enorme e sorprendente figura nerovestita che conosciamo dall’inizio, a chiedere di vedere una culla per la sua domestica. Sono arrivate insieme all’autista-uomo di casa scansando e non curandosi di una manifestazione studentesca che si stava già ingrossando nelle strade lì intorno e ora è lì sotto, folta, urlante, frenetica. Nonna e governante si sono avvicinate alle finestre, lunghi rettangoli orizzontali da cui seguono il divampare della violenza (c’era un gruppo, allora, che si infiltrava nelle manifestazioni pacifiche, detto I Falchi). A un tratto entrano nello stanzone del magazzino due ceffi armati, uno dei quali è il tanghero Fermin. Sono chiaramente dei provocatori ma se ne vanno subito. A Cleo però, per la sorpresa, si rompono le acque. La città è nel caos, le file di macchine imbottigliate nella lunga curva di un tunnel dicono che sarà impossibile raggiungere in tempo l’ospedale. Infatti alla fine la creaturina di Cleo nasce morta. Fermin l’ha uccisa due volte.
Nella visione, nel femminismo di Cuarón, c’è la più profonda solidarietà e convinzione ma miracolosamente senza asprezza; così come è senza asprezza la constatazione della normale condizione servile di Cleo e dei normali comportamenti borghesi. Cuarón si tiene lontano da qualsiasi spunto polemico: gli basta, e basta a noi, il suo modo di osservare acuto e nostalgico, fra incanto e disincanto, la sua leggerezza così lontana dalla superficialità, il fondo amaro e però terribilmente vitale. Una maggior severità si nota, è chiaro, nella raffigurazione degli uomini, tanto che si potrebbe parlare di anti-maschilismo, o meglio anti-machismo. Gli atavici pregiudizi, la sordità, l’immaturità dell’uomo in confronto alla disponibilità e generosità della donna erano del resto il tema del primo film di Cuarón, Y tu mamá también, variamente scambiato per commedia sexy, road-movie, coming of age e via dicendo: era in realtà la storia di una giovane donna libera che durante una vacanza cercava di emancipare sessualmente e sentimentalmente i suoi due improvvisati compagni diciassettenni: finendo poi per lasciarli alla loro puerile gelosia reciproca che sfociava nel termine dell’amicizia fra i due. Ma in Roma tutto l’interesse è sulle donne. E diverse scintille vengono dai bambini, dalla loro perenne vitalità e intelligenza e spirito d’osservazione. Com’è brutto il salone senza le librerie di papà, esclama uno di loro quando rientrano dalla vacanza al mare, servita a Sofia per annunciare ai figli che il padre non tornerà, anzi, si sta già trasferendo (annuncio dato con accorata intelligenza e accolto con stupita attenzione – ma è il giorno in cui al centro dell’attenzione c’è anche Cleo, diventata ancora più “famiglia” perché ha salvato dalla violenza delle onde, lei che non sa nuotare, due dei bambini: ha fatto semplicemente il suo dovere, come ogni giorno). Dunque si torna a casa, e certo i vuoti nell’arredamento si notano, poi però niente lagne, i bambini corrono su a vedere le nuove sistemazioni delle stanze, chiamano la nonna, si rincorrono, strillano – il loro “dramma” è comunque rimandato.
Ripensando al film, che è uno di quelli che penetrano a fondo e restano, non si finirebbe più di citare: quel lungo corridoio che fiancheggia l’appartamento e immette nel cortile, sempre cosparso delle cacche del cane e sempre troppo stretto per il macchinone americano di casa, finché Sofia, liberatasi del marito, si libera anche di quella comprando un’auto più piccola e adatta; o, subito lì fuori, la strada del quartiere Roma che lascia intravedere, senza sottolineature, un’eleganza inizio secolo un po’ decaduta; o il quartiere disastrato o terra di nessuno dove, in un grande spazio piano, Cleo assiste all’esercitazione di massa dei seguaci di arti marziali, fra i quali è andata a cercare il suo sparito Fermin – il quale poi, con lo sprezzo del fascista, le grida che è solo una sguattera… Così Alfonso Cuarón, dopo averci stupefatti con il suo Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, dove ogni immagine era fonte della più pura meraviglia fiabesca, e con Gravity, unica avventura spaziale di una donna, riesce a stupirci ancor più profondamente quando passa al realismo. La versatilità, in casi come questo, non è un pregio minore. Ma stavolta il pregio maggiore è la grazia del suo insegnamento, il suo profondo umanesimo, tanto da ricordarci le parole con cui William Faulkner chiuse il suo discorso di accettazione del Nobel (1949): “La voce del poeta non deve limitarsi a essere la testimonianza dell’uomo, può essere uno dei sostegni, dei pilastri che lo aiuteranno a resistere e a prevalere”.