Da qualche anno tutti andiamo pazzi per le serie televisive. È una specie di rapimento collettivo, oh che mirabolante sorpresa, ma che belle queste nuove serie, si sente dire da gente più che matura e anche dagli addetti ai lavori, proprio fantastiche, e giù le altre scoperte dell’acqua calda, come raccontano bene gli americani, e anche gli inglesi, che attori favolosi, e tutto un qua qua, naturalmente senza più distinguere fra buono e cattivo, la moda travolge e spazza via qualsiasi discorso, tutto sembra nuovo e meraviglioso. Le ragioni di questo esistono in abbondanza. Dopo una dura lunghissima dieta, una trentina d’anni di cinema americano fatto al novanta per cento di scervellati film d’azione più o meno sanguinari e di stucchevoli super eroi Marvel e non Marvel, sentire dei dialoghi ben scritti e vedere gli attori alle prese con dei personaggi anziché dei fantocci è legittimo che ci sembri una specie di miracolo. Abbiamo visto in pochi anni dei titoli di grandissimo livello: splendide sceneggiature originali, una fotografia che col digitale ha raggiunto livelli impensabili per nitidezza e uso della luce, quasi sempre regie di gran classe, ogni tanto dei cast meravigliosi (Downton Abbey, House of Cards…)

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Kirk Douglas in “I boss del dollaro”

Solo che dovremmo sorprenderci un po’ meno. Invece la già gloriosa tradizione della narrazione romanzesca nella forma della mini-serie sembra ignorata. È solo apparentemente paradossale che proprio lo strumento più moderno e post-moderno e onnivoro e onnipresente, la televisione, o meglio i suoi contenuti vengano dimenticati – ma ormai si dimentica tutto, viviamo in un eterno presente fanciullesco senza passato (quindi senza futuro) e a maggior ragione sono caduti nell’oblio i successi degli anni Settanta, QB VII , Rich man poor man (in Italia Il sogno americano dei Jordache), Roots (Radici, di cui ora è pronto il remake) e tanti altri, spesso con grandi attori, da Kirk Douglas a John Cassavetes, Vanessa Redgrave, Anthony Hopkins.

In seguito, questo è indimenticabile, ci fu l’esplosione di Twin Peaks (1990-91), e si ebbe un nuovo capostipite: un rivoluzionario e affermato autore di film, David Lynch, affrontava la serialità televisiva, e a una prima stagione di otto puntate seguì, dato il successo, una di ventidue. Il gioco era fatto, le mini-serie fino ad allora andavano dai due ai sei episodi, e non superavano i sei le eventuali seconde stagioni. Ora, forse sull’esempio dell’opera di Lynch, la narrazione sembra potersi espandere e dilatare all’infinito, o meglio, finché reggono i ratings. Il “teleromanzo” conchiuso si è mescolato e ha preso l’andamento e talvolta i contenuti della soap opera (un esempio di questo genere “misto” era Desperate Housewives) e delle serie a episodi chiusi (per tutti ER).

Da una parte ha ragione Roman Polanski, che vede l’assoluta legittimità della migliore fiction attuale nel modello del romanzo ottocentesco. In effetti è stato bellissimo ritrovare in certe serie il lungo respiro e la necessità di approfondimento della narrazione classica. Questo però sembra valere nel caso che ci si affezioni molto ai personaggi, vedi quelli di Downton Abbey e, ad esempio, i reduci delle campagne belliche di Giulio Cesare nel troppo trascurato (e in Italia censurato) Rome Roma, durato peraltro solo due stagioni; oppure nel caso che i personaggi, anche se sono tutti delle carogne, abbiano una vera grandezza, un vero spessore drammatico, vedi House of Cards, dove si sente perfino l’eredità shakespeariana e insieme quella della miglior tradizione letteraria.

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Roots – Radici

Anche i grandi pregi in ogni caso prevalgono su ogni altra considerazione per un certo numero di annate, almeno secondo il sottoscritto. Anche negli esempi migliori un certo punto la necessità va a farsi friggere, si instaura una sensazione di ripetitività, di già visto, di dilatazione di comodo – gente che va, gente che viene, come in un infinito Grand Hotel; e talvolta, sebbene la singola puntata abbia una sua consistenza, si notano inutili allungamenti di inquadrature e situazioni, primi piani di troppo. E’ allora che viene il dubbio se in fondo questo modo di narrare, malgrado ne usi il linguaggio, non sia più cinema bensì, in un certo senso, la sua negazione. Perché il cinema è per sua natura sintetico, denso, si affida in larga parte al non detto, all’immagine, e una singola immagine, si sa, può dire di più, e più intensamente, di venti minuti di dialogo. E quando si ritrova la mini-serie di durata limitata, come nel caso del recente The Night Manager, sei sole puntate, cotto e mangiato, che sollievo! Il nostro futuro si sgombra dell’assillo di seguire e seguire i prossimi inevitabili episodi, le annose vicende di questo e di quello! Perché insomma, nemmeno Il circolo Pickwick, nemmeno Delitto e castigo, che pure uscivano a puntate, ci mettevano tanti anni a concludere!

Per quanto l’appuntamento sia in sé rassicurante, la sazietà è in agguato. Il problema se lo sono posto in modo originale i creatori di American Horror Story, Ryan Murphy e Brad Falchuk, ambientando ogni stagione (siamo alla sesta) in un luogo-base diverso – la casa stregata, il manicomio, il circo ecc. – e variando i ruoli degli attori fissi protagonisti. Il discorso è molto diverso di fronte alla situation comedy o serie comica. Più ancora delle vecchie e nuove serie poliziesche, la sitcom è ripetitiva per statuto: ci si aspetta di ritrovarsi di anno in anno con gli stessi personaggi, di base in numero limitato, negli stessi pochi ambienti. È il genere più originale e longevo (Lucy e io inizia nei primi anni Cinquanta), e la longevità di un medesimo titolo in alcuni casi è da campionato.

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The Big Bang Theory

Il primato in questo senso spettava fino a poco fa a un capolavoro dell’umorismo, Seinfeld, che andò in onda dal 1989 al 1998. Ora è stato battuto da The Big Bang Theory, appena arrivato alla decima stagione: The Big Bang Theory (d’ora in poi BBT) è la rivelazione di un mondo sconosciuto e attualissimo, quello dei nerd di genio, ogni puntata è un’esplosione di spirito, di intelligenza, di sorprendenti variazioni su tema e ogni personaggio è esilarante e spiazzante: su tutti l’ex-enfant prodige della fisica pura, l’impareggiabile Sheldon Cooper impersonato da Jim Parsons. (Ovviamente dire che Jim Parsons è il più grande attore rivelatosi negli ultimi dieci anni, come ho fatto su questa pagina giorni fa, era solo una piccola provocazione. Di grandi attori, è chiaro, ce n’è qualcun altro. Ma mica tanti! Comunque ognuno è libero di fare le proprie classifiche: propongo liste di non più di sei nomi, di attori e attrici che non siano apparsi prima del 2006!)

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