Sappiamo da diverso tempo che nel linguaggio mass-mediale l’uso scriteriato di alcune parole ha avuto come effetto di svuotarle di qualsiasi senso, rendendole ridicole e stucchevoli. Ovviamente si tratta di parole che una volta erano preziose. Una è emozione: come ben sa chiunque abbia guardato qualche volta un qualsiasi reality show, dal Grande Fratello in giù, emozione è la parola più pronunciata, sillabata, accarezzata, esclamata, gridata (soprattutto gridata) da conduttori e concorrenti. Tanto che ormai non è più utilizzabile in alcun modo, nemmeno nei casi disperati. Un’altra parola adorata dalla retorica dei nostri giorni è sogno. Sembra che tutti abbiano un sogno (o magari decine di sogni), tanto da poter dire con Calderon de La Barca che la vita è tutta un sogno. Senonché questo uso cretino e scellerato della parola non ci si aspetterebbe di trovarlo perfino in un’enciclopedia – nella fattispecie Wikipedia (contro cui, voglio precisare, non ho alcuna obiezione, e che anzi ho contribuito a finanziare più di una volta, trovandola strumento utilissimo).
Andando a riguardare qualche notizia sulla serie di film Pirati dei Caraibi (ora ritrasmessa interamente da Sky per l’ennesima volta) fra le note di produzione si legge che gli sceneggiatori Ted Elliott e Terry Rossio, nonostante i molti rifiuti della loro idea di combinare il vecchio filone dei pirati con il fantasy, “refused to give up their dream”, non vollero abbandonare il loro sogno. Ci si aspetterebbe piuttosto di trovare scritto che non vollero abbandonare il loro progetto. Invece no, sogno. Mi è sembrato un sintomo veramente triste. È come se in un mondo sempre più nero ci fosse, impellente, il bisogno di addolcire, smielare, indorare la pillola in ogni occasione possibile. Come un veleno di lenta efficacia, la melensaggine penetra inavvertita nelle piegoline più riposte della realtà, dove meno te l’aspetti. Perfino fra le voci di un’enciclopedia, il cui tono dovrebbe essere, più che di un fan minorenne o di un ufficio-stampa Disney, quello di una semplice cronaca o relazione. È ancora, forse, il mito dell’american dream che, obsoleto, cancellato dalla politica, mantiene la sua fortissima presa retorica. Ma così perfino il sogno, da comune esperienza viva e, se volete, surreale diventa irreale, svuotato di qualsiasi attinenza con la realtà.
Bisogna essere molto accorti, in questa situazione, e possedere una vera misura d’artista per sottrarsi, anzi, per non essere nemmeno sfiorati dall’idea di servirsi di una parola come sogno quando si mette al centro dell’azione di un film un ragazzo americano di quindici anni che, diventato improvvisamente solo, ha nella vita un unico scopo, ritrovare un affetto, una casa, un pezzetto di famiglia. Verrebbe da dire che questo è il suo sogno. Invece per Charley Thompson (chiedo perdono se per una volta mi concedo di parlare di un film distribuito da Teodora) questo non è un sogno, è una dura necessità. Tra cittadine di provincia, ippodromi secondari, gare truccate, spazi sconfinati, Charley si muove nelle difficoltà e viaggia a piedi attraverso tre Stati, dall’Oregon al Wyoming, con la forza e l’ostinazione della necessità e infine della disperazione, senza mai arrendersi. Ha la stessa ostinazione caparbia, e alla fine vincente, di una lunga tradizione che in cinema apparteneva a molti personaggi di Hawks. Ma nel corso della vicenda né lui né alcun altro dei molti personaggi pronuncia mai la parola sogno. Non c’è nulla di dolce o di romantico nel bisogno che ha Charley di ritrovare la zia Margie, nulla che non sia progetto reale e concreto.
La negazione del sentimentalismo si riflette nel rifiuto del regista, Andrew Haigh, di tutti quei facili effetti cui questa storia (un road movie-romanzo di formazione, ma anche visione realistica di quegli Stati interni americani che hanno portato Trump al potere) si sarebbe generosamente prestata. Haigh sa per istinto che la misura, il tacere, il non sottolineare sono l’unico modo per arrivare a essere davvero toccanti, davvero intensi e “emozionanti”.