Che Clint Eastwood potesse destare una grande tenerezza era una cosa che non ci saremmo mai aspettati. Eppure, avendolo visto l’ultima volta nel 2008 in Gran Torino (ammetto di aver saltato il film sul baseball, Di nuovo in gioco, 2012), scorgere in The Mule dapprima la sua bella faccia segnata sotto l’ombra di un cappello e subito dopo vederlo camminare curvo e col passo lievemente malsicuro della vecchiaia ha suscitato proprio questo strano effetto. Del resto molti di noi sono invecchiati con lui, seguendolo di decennio in decennio e di capolavoro in capolavoro, e la cosa non doveva essere imprevedibile. Solo che qui l’impressione è molto forte, e il gioco dei rispecchiamenti rischia di far passare tutto il resto in seconda linea.

Ispirato da una vicenda reale, The Mule-Il corriere racconta di un floricultore, Earl Stone, estraniato dalla famiglia (moglie, figlia e nipote) per aver dedicato tutta la sua passione e il suo tempo alla coltivazione e commercio di fiori, che si ritrova, più che ottantenne, al fallimento economico, con casa e giardino messi all’incanto. Un giorno dice per caso a un lavorante messicano di non aver mai preso in vita sua, da guidatore, una sola contravvenzione. E così ha inizio la sua avventura come corriere della droga: non solo è pulito, ma la sua età lo rende insospettabile. Earl non si rende subito conto che riceve in consegna e porta a destinazione dei carichi di cocaina. In breve si rivela tanto puntuale, calmo, con presenza di spirito da diventare una sicurezza per il cartello; e il lavoro è pagato così bene che Earl compra un nuovo camioncino, riscatta la sua casa e accetta carichi sempre più pesanti e pericolosi. Finché il cerchio della DEA (Drug Enforcement Administration) gli si stringe intorno.

Clint Eastwood in “Gran Torino” (2008)

Insieme allo sceneggiatore Nick Schenk (che aveva scritto il bellissimo Gran Torino), Eastwood disegna un personaggio dei suoi, scettico, cordialmente razzista (mi fa piacere dare una mano a due negri, dice a una coppia con una gomma a terra), serenamente amorale all’apparenza (quando viene ricevuto nel villone del boss si guarda intorno ammirato e domanda tranquillo: Quante persone bisogna uccidere per arrivare a questo?), ma in verità con una sua etica profonda. Venendo a sapere che sua moglie, che a parole lo detesta, è grave, corre da lei e resta al suo capezzale invece di fare la consegna prevista, rischiando così di farsi ammazzare. E in un bellissimo finale, riconciliato con figlia e nipote, rivelerà la profonda convinzione del buon americano protestante, che mentire è ripugnante, è impossibile.

Il film è decisamente il migliore di quelli realizzati da Eastwood negli ultimi anni. Ha tutta la classe, lo humour, la tensione che ci si può immaginare. L’unica cosa che limita un’adesione totale è l’insistenza sul cocente rimpianto di aver preferito il lavoro alla famiglia – la quale peraltro, prima del finale, è stata dipinta come compattamente astiosa e rancorosa, proprio da starne lontani. Il ricorrente bisogno, nella drammaturgia americana, della più netta e accesa conflittualità è una volta ancora un limite piuttosto fastidioso. Anche perché questo è proprio un caso in cui i personaggi potevano mostrare uno per l’altro una sana indifferenza, senza alcuna variazione o danno per la storia e il suo significato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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