È stata, oltre che un’emozione molto forte, una stranissima esperienza trovarsi davanti a un film, The Other Side of the Wind, che si è sperato, e disperato, di vedere per più di trent’anni, ovvero dal 1985, quando Orson Welles morì mentre ne “ultimava” le riprese. Speranza poi rinfocolata e accresciuta da un bellissimo libro apparso nel 1992, firmato dallo stesso Welles con l’amico e sodale Peter Bogdanovich, This is Orson Welles (in italiano Io, Orson Welles), dove del film si parla non diffusamente e non del dettaglio ma in modo tale da suscitare desiderio e rimpianto in parti uguali. Il libro è il resoconto di diversi lunghi incontri avvenuti nel corso di vari anni fra Bogdanovich, il quale, rivelato poco più che trentenne da un capolavoro, The Last Picture Show, all’epoca del libro era già, dal punto di vista di Hollywood, un has-been, e il vecchio magnifico genio sempre tartassato da ostracismi e guai. Di questo resoconto, spesso struggente, The Other Side of the Wind è il tema che domina l’introduzione. Una sera i due parlano della durezza del mondo del cinema nei confronti dei vecchi registi, Griffith, von Sternberg, Lang, Vidor, Renoir… Il giorno dopo Welles dice di averci ripensato tutta la notte. “Penso che sia terribile e basta, quello che succede ai vecchi. Ma questo al pubblico non interessa, non gli è mai interessato. Ecco perché Re Lear è un dramma che la gente detesta… … Giovinezza e vecchiaia sono grandi momenti; dovremmo proteggere la vecchiaia come un tesoro, e mettere i geni in condizioni di lavorare anche da vecchi, invece di cacciarli via…”.
Passa un altro giorno e Welles annuncia al giovane amico che il suo prossimo film avrà proprio quel tema: gli ultimi giorni di un regista che invecchia, “il progetto che infine divenne The Other Side of the Wind”, dice Bogdanovich, “un film ormai leggendario che Welles cominciò a girare a sue spese alla fine degli anni Settanta, continuando a più riprese per parecchi anni”. Subito dunque un’idea di libertà e di sfida, la scelta di un tema “che la gente detesta”. E la scelta, come naturale alter ego, di John Huston, un altro grande regista che invecchiava, oltre che attore espertissimo e presenza magnetica: una specie di specchio. (Ma va ricordato che Huston proprio in vecchiaia ha dato degli autentici capolavori, da L’onore dei Prizzi a The Dead). E nella parte di confidente e sfuggente braccio destro lo stesso Bogdanovich.
Il film che finalmente abbiamo visto mette in scena una notte di festeggiamento per il regista, qui chiamato Jack Hannaford, per l’anteprima di una parte del suo nuovo film, “The Other Side of the Wind”, da mostrare a una folla di rumorosi invitati. Scene di questo film a colori con largo uso di nudi e sfondi trompe-l’œil (con ogni tanto un geniale cartello, frame missing, inquadratura mancante) si alternano alle azioni e dialoghi fra i vari personaggi e alla festa in villa che procede durante la proiezione, in un continuo scambio di piani e cambio di inquadrature, volti in primo piano, voci sovrapposte, corse, giri a vuoto: nel protagonista c’è il distacco ironico e amaro di chi nella vita ha già visto tutto, e intorno a lui l’ansia, la costante frenesia, la labilità atroce, probabilmente le stesse di un set wellesiano. Anche l’omaggio ad alcune vecchie glorie dimenticate e recuperate, la sempre stupenda Lilli Palmer (Maschere e pugnali, di Fritz Lang), Mercedes McCambridge (Johnny Guitar, di Nicholas Ray), Pat O’Brien (Angeli con la faccia sporca, di Michael Curtiz) sembra tingersi di un cocente rimpianto. Nel corso del film questi continui movimenti e frammentazioni diventano una sarabanda infernale, fino alla distruzione totale: vengono presi a fucilate dei manichini simil-comparse – e a fucilate metaforiche la caparbia stupidità di una rappresentante della critica – viene abbattuto un enorme fallo che si erge su un prato, la proiezione nella villa elegante, interrotta per un guasto, viene spostata in uno scassato drive-in, ultimo rifugio del grande schermo, presto abbandonato anch’esso. Fine del sesso, fine del cinema.
Questa drammatica féerie in bianco e nero e a colori è, come avrete capito, un vorticoso metafilm sulla vecchiaia e la fine, una fine tanto naturale quanto forzata da un mondo superficiale, senza valori, tutto sommato ostile. È un’opera affascinante, spesso ipnotica, sorprendente. Nella sua amarezza mostra una vitalità di messa in scena intatta, più o meno sulla stessa lunghezza d’onda del miglior cinema contemporaneo (qua e là vengono in mente Fellini, Godard, Altman): ma appunto, Welles non è mai stato un contemporaneo di nessuno, bensì un innovatore assoluto, un rivoluzionario. E sorprende anche che abbia rinunciato del tutto a una sequenza o due più riflessive, o monologanti, o semplicemente distese (a parte le lunghe camminate, nel film visionato in pubblico, di Oja Kodar nuda) come il suo cinema ci ha abituati nelle occasioni più diverse. Del resto qui si parla anche della “persecuzione shakespeariana” (ricordo che all’età di otto anni Orson Welles si era misurato con Shakespeare, scrivendo un suo adattamento, o montaggio, delle due parti di Enrico IV con Le allegre comari di Windsor) …
La sensazione alla fine è che manchi qualcosa che non sapremo mai, e forse che il montaggio possa essere, sia pure “in linea” con la straordinaria “modernità” di Welles, almeno in parte arbitrario. Quello che abbiamo davanti sembra un po’ come l’oggetto prezioso con una falla segreta di jamesiana memoria, pressoché invisibile, quasi inavvertibile. L’assenza di Peter Bogdanovich dalla prima veneziana mi ha stupito, rafforzando questi dubbi, poiché è stato lui per tutti questi anni l’instancabile forza motrice del progetto di recupero e compimento. Non solo: era lui, l’uomo che dialogava con Welles, a sapere in dettaglio cosa il regista avesse in mente, o meglio, come The Other Side of the Wind dovesse essere. E forse, sottolineo forse, non è d’accordo con questo prodotto.
In margine ricordo che è disponibile in rete Too Much Johnson, il film che Orson Welles girò nel 1938 perché facesse parte, o meglio tutt’uno, con uno spettacolo teatrale che non andò in scena: e dunque questo primo film non venne mai montato. Ma i lunghi spezzoni, le molte sequenze gloriosamente ritrovate dalla Cineteca del Friuli, danno la prova di un genio del cinema assoluto: non solo inventa il cinema nel teatro, ma rinnova prodigiosamente la tradizione del cinema comico muto in esterni, all’aperto. Si tratta della fuga di Joseph Cotten da un marito geloso attraverso New York, tetti vertiginosi, strade, scale esterne, ancora tetti, capannoni, mercati, tutto mosso, veloce, aereo, divertente, in un gioco di prospettive che, quello davvero, lascia a bocca aperta. Sarà perché molte inquadrature sono ripetute più volte: nessuno, per fortuna, ha preteso di scegliere e montare (scelta che evidentemente con The Other Side of the Wind non era possibile): sta di fatto che con Too Much Johnson abbiamo una meraviglia intatta, l’opera allo stadio del laboratorio, e possiamo goderne come ci pare.