È decisamente impressionante rivedere oggi il primo film di Steven Spielberg per il grande schermo, Sugarland Express (1974), non potendo far a meno di considerarlo alla luce dell’ultimo, The PostSugarland Express era un film perfettamente in linea con lo spirito degli anni Settanta: duro, amaro, sarcastico e senza illusioni nella considerazione del sistema: ricorderete tutti il mastodontico e ridicolo spiegamento di forze di polizia all’inseguimento del giovane evaso e della sua moglie scervellata che, proprio nel momento in cui si trasformano in fuorilegge, mostrano tutta la loro innocenza di vittime, la loro commovente inconsapevolezza. E ricorderete forse come, nel big carnival che si scatena intorno ai fuggitivi e alla scellerata colonna di macchine poliziesche che la insegue, non manchi lo sguardo impaurito sulla quantità di armi da fuoco che circolano fra gli “spettatori” e sulle iniziative dei giustizieri privati. Ripeto, un film, oltre che tuttora bellissimo e di magistrale messa in scena, pienamente e coerentemente anti-sistema.

Goldie Hawn in "Sugarland Express"

Goldie Hawn in “Sugarland Express”

Anche The Post è un miracolo di messa in scena, di abilità nel narrare. Riuscire a tenerci tutti col fiato sospeso su una vicenda arcinota (quella delle cosiddette Pentagon Papers che finì per portare allo scandalo Watergate e alla destituzione di Nixon), con protagonisti piuttosto scoloriti, non è una scommessa da poco. Soprattutto facendo un film che appartiene in tutto e per tutto al genere edificante, celebrazione in piena regola della libertà individuale e di quella della stampa e infine della democrazia. Senonché The Post, anche se denuncia l’aberrazione della politica di guerra americana in Indocina (e non solo quanto al Vietnam ma fin dai tempi di Truman e Eisenhower, dunque dalla guerra di Corea), quando deve spiegare come e perché una guerra inutile e persa in partenza abbia potuto essere trascinata attraverso varie presidenze per più di vent’anni, ricorre a ragioni plausibili – la “impossibilità” ufficiale di perdere per i vincitori della II° guerra mondiale, il patriottismo, l’impopolarità di un eventuale ritiro dalla regione – ma tutt’altro che sufficienti. Perché in un discorso di questa portata non si può non menzionare neanche di sfuggita il ruolo determinante dell’industria bellica, far finta che un potere così schiacciante non abbia influenzato il corso tragico della Storia. E questo parlando tutto il tempo di libertà. Dov’è la libertà di Spielberg, viene allora da chiedersi. Sapevamo da un pezzo che non è un artista anti-sistema (altro che anni Settanta!), che è anzi perfettamente a suo agio nel sistema capitalistico, proprio quello attuale divorante e senza freni che sta rendendo tutto uno schifo, cinema americano incluso (con le solite eccezioni, ovvio). Ma raccontare solo un pezzetto di verità mentre si fa un’esaltazione della verità è detestabile ipocrisia. Pentagono, Washington Post, New York Times, democrazia diventano così solo nomi insignificanti. È triste che a Spielberg questa ipocrisia non sia stata rimproverata a voce alta. Per non dire quanto è triste uscire dal cinema soddisfatti e poi ripensarci e rendersi conto che siamo stati beffati, che dal mosaico di fatti e motivazioni manca una tessera fondamentale. In The Post, come in altri film di questi tempi tetri, sembra di ravvisare un’incapacità ideologica, un non saper o non voler trarre tutte le conseguenze delle proprie premesse.

Tom Hanks in "The Post"

Tom Hanks in “The Post”

Mentre di Spielberg è già in uscita un nuovo film, Ready Player One, è ancora in programmazione Il filo nascosto (Phantom Thread), del meno prolifico ma geniale Paul Thomas Anderson, premiato dalla critica e dai grandi festival ma solo ogni tanto dal pubblico e mai da un Oscar personale, l’Academy hollywoodiana essendo sempre più affezionata alle operine astute che rifanno il verso alla grandezza del passato, tipo La La Land e La forma dell’acqua.

 Nel Filo nascosto Anderson torna a un tema che gli sta a cuore, quello del dominio. Con colorazioni e in contesti molto diversi, Il Petroliere è un protagonista che conquista il dominio di sé, della fame, della sete, della fatica, per dominare infine le risorse della terra, con una violenza e un’ostinazione che sfociano nella follia omicida, e che riflettono l’impossibilità dell’impresa di capitale di non “andare avanti”, avere di più, accumulare di più. La lotta per il dominio assoluto di un uomo su un altro, per una fedeltà a tutti i costi nell’oscuro mondo delle potentissime sette pseudo-religiose è il tema di The Master. E ora, nel Filo nascosto, Anderson ci immerge nel regno privato e fatale del dominio amoroso. Lo fa iniziando a condurci in un regno più tangibile (ma quasi altrettanto insicuro e nevrotico), quello dell’alta moda londinese dei passati anni Cinquanta, dove si muove come un re Woodcock Reynolds, sarto delle sopravvissute royalties europee e dell’aristocrazia inglese: alto, bello, fosco, gentile, tranquilla forza nervosa in ogni gesto e passo, ovviamente elegantissimo: Daniel Day-Lewis, imprescindibile. Una mattina Reynolds nota in una locanda di campagna una ragazza che serve il breakfast e mentre si avvicina a lui inciampa in un tavolo rischiando di rovesciare una tazza. La ragazza, Alma, ride (in modo delizioso) incontrando il riso cordiale di lui. Quanto basta perché Reynolds la impegni in un rapido esame attitudinale, sempre osservandola: la fanciulla ha uno sguardo sorridente e misterioso degno di un grande pittore, e la luce dell’esterno sembra emanare dalla sua persona e risplendere.

Daniel Day-Lewis ne "Il filo nascosto"

Daniel Day-Lewis ne “Il filo nascosto”

Così ha inizio l’attrazione irresistibile. Reynolds crede di aver trovato la modella ideale, instancabile, pronta a ogni ordine, ogni esigenza, soprattutto all’accettazione di ogni sua idiosincrasia. Alma non tarda a rivelarsi ostinatissima nell’affermazione delle sue proprie esigenze e gusti e rifiuti. Lei non sarà certo “una donna uccisa con gentilezza”. Per la prima volta nella sua vita, nel suo microcosmo perfettamente regolato, Reynolds trova qualcuno che cerca di imporsi a lui. Situazione pericolosa. Ma il vincolo è subito troppo forte. L’amore diventa presto una lotta di sopraffazione, di possesso dell’altro senza deroghe.

Il bisogno istintivo o la volontà di soggiogare l’altro, di imprigionarlo, di impossessarsene, riaffiora ogni tanto nel cinema, quasi sempre con capolavori: Il servo di Losey-Pinter, Il collezionista di William Wyler, Quel freddo giorno nel parco di Robert Altman, infine e soprattutto Tristana di Luis Buñuel, tutti curiosamente realizzati una cinquantina di anni fa, fra il 1964 e il 1970. Ma Il filo nascosto non assomiglia veramente a nessuno di questi. In parte perché è il solo che ci narra qualcosa di difficile e spesso dato per scontato come gli attimi meravigliosi e fuggenti dell’innamoramento – non il vecchio colpo di fulmine, che è cosa in fondo strettamente personale, ma un effettivo innamoramento nel quale ognuno può riconoscere qualcosa della propria esperienza. Ed è questo che dà la forza straordinaria e la credibilità a ciò che segue.

Paul Thomas Anderson e Jonny Greenwood

Paul Thomas Anderson e Jonny Greenwood

Con delicatezza, fra le spirali di mille geniali dettagli (la vestizione mattutina di Reynolds, il rito silenzioso del breakfast, un abito da gran gala seguito fra le quinte fino alla presentazione in pubblico), i primi piani di Alma che sempre più fa pensare a una creatura della pittura fiamminga, e le note di pianoforte di Jonny Greenwood, i colori preziosi, le sete, le magnificenze dei chiaroscuri, Anderson ci fa scivolare a un ritmo quasi sognante nei territori dell’ambiguità più radicale e nera, dell’ossessione, dell’amore come vertigine, forza distruttiva, limite estremo, abisso. È abbastanza audace da mostrarci un rapporto sado-masochista che pure è misteriosamente anche “sereno” e “creativo”, e mentre ci fa parte della sua visione dell’amore come veleno, alla lettera, stende su tutto un velo di dolcezza. È un puppet-master non violento che parla di crudeltà con ironia e con uno sguardo impassibile che è l’opposto della freddezza.

Qualcuno ha scritto che il film è commedia gotica, ma come ogni capolavoro Il filo nascosto sfugge a qualsiasi definizione.

 

 

 

 

 

 

 

 

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